giovedì 16 marzo 2017

Chi scrive male pensa male

Una riflessione di qualche tempo fa  sulla scrittura, che deborda in una ampia disquisizione sulla preparazione offerta dalla nostra scuola di ogni ordine e grado. Articolo lungo ma con molti spunti interessanti.
La parte che mi ha più interessato, visto che ci penso da molto, è quella in cui descrive la situazione dell'università, con il suo concetto di "libertà" di fare più o meno ciò che si vuole (in termini di carriera scolastica):
[...] l’università italiana è quel luogo felice in cui gli studenti possono ripetere lo stesso esame virtualmente all’infinito. Tre sessioni l’anno, uno o due appelli a sessione, più eventuali sessioni straordinarie: i miei studenti possono, come si dice, “tentare” il mio esame cinque o sei volte l’anno, finché non lo passano (e infatti quattro non è il record: ci sono studenti che lo hanno ripetuto sei, sette volte). In altre nazioni, chi viene bocciato all’esame per due volte deve ripetere l’intero anno; in alcune, una pluri-bocciatura comporta l’espulsione dall’università. Non in Italia. In Italia, una volta entrati, si ha il diritto di ripetere gli esami quante volte si vuole, così come si ha il diritto di non frequentare le lezioni. È la libertà.

A chi viene da fuori dall'Italia questa situazione appare come un'assurdità. In effetti siamo un unicum nel panorama del mondo sviluppato.
A me è sempre sembrata una cosa illogica: o mettiamo una forte barriera all'ingresso (ovunque, però), in termini di test per tutte le facoltà e/o di superiori più selettive, oppure - se permettiamo l'iscrizione a tutti - applichiamo una forte selezione in corso d'opera. L'articolo mi spiega perché questo non succede, mettendo l'accento su alcuni meccanismi di tipo economico a cui non avevo pensato.
Continuo a non capire come si conciliano tra di loro alcune affermazioni di solito date per buone:
  • l'università italiana è più permissiva e lassista che in altri Paesi;
  • il tasso di laureati in Italia è troppo basso;
  • la preparazione dei laureati italiani, se confrontata a quella degli altri Paesi, è più che buona.
All'apparenza, non più di due di queste affermazioni possono essere vere contemporaneamente...

Cambiando argomento, ed allargando lo sguardo su quello che probabilmente interessava di più l'autore, io sono un seguace di Nanni Moretti quando dice che "chi parla male, pensa male". Ho sempre cercato - quando impartivo qualche lezione - di insegnare un linguaggio il più possibile corretto. Non credo che a lungo andare sia così "trasparente" saper scrivere bene.
La cattiva capacità di espressione è insieme causa ed effetto - in un circolo vizioso - della pessima capacità di comprensione del testo degli italiani, che sfocia in analfabetismo funzionale.
Questo inficia anche la convivenza civile: e qui arrivo a questo bel contributo. L'importante è avere ragione, anzi: farsi dare ragione. Non importa più tanto la correttezza logica dell'argomento.

Intendiamoci, non ho intenzione di iscrivermi al partito dei laudatores temporis acti: non sono così convinto che in passato la situazione fosse migliore. Constato però che il "contesto sociale" è cambiato rispetto a cinquant'anni fa: una volta l'analfabetismo (funzionale e non!) diffuso aveva meno conseguenze sulle relazioni sociali perché era più diffusa l'abitudine a fidarsi dell'autorità di turno, che fosse il capo di partito, il prete, il dottore di paese. Le decisioni, la guida era incontestabilmente in mano alle élite.

Oggi viviamo il fallimento della scolarizzazione progressiva universale: forse ci siamo illusi che bastasse dare a tutti un'istruzione per togliere le masse dall'analfabetismo e renderle consapevoli, ragionevoli, capaci di pensare "bene" (qualunque cosa voglia dire). Vediamo che non è così.

Sono molto combattuto su come pensare a questo fenomeno.
Da una parte potrei pensare che si tratta di un fatto insuperabile, che in ogni caso gli uomini non sono tutti uguali, e ci sarà sempre una parte della popolazione "analfabeta funzionale". In questo caso dovremmo (tornare a) affidarci di più alle élite (e quali?), ma questa soluzione è democraticamente accettabile?
Dall'altra parte potrei sposare una visione più ottimista, per cui l'operazione di crescita culturale comune non è riuscita perché l'educazione non è stata sufficiente, e quindi bisogna spingere ancora di più sulla scuola, riformarla, farla funzionare ancora meglio, tentare ancora. Vaste programme... Certo tentare di lavorare sull'educazione - cosa che nel nostro piccolo cerchiamo di fare sia io che mia moglie - non può far male, ma basterà?

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